TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA 
         per il distretto della Corte di appello di Perugia 
 
    Il Tribunale di sorveglianza di Perugia,  riunito  in  Camera  di
consiglio e composto da: 
        dott. Fabio Gianfilippi, Presidente; 
        dott.ssa Delia Anibaldi, Magistrato sorv. Perugia; 
        dott.ssa Marzia Gervasi, esperto; 
        dott. Federico Giubilei, esperto; 
    ha pronunciato, a scioglimento della riserva di cui al verbale di
udienza in data 23 maggio 2019, e preso atto  delle  conclusioni  del
P.G. e del difensore,  la  seguente  ordinanza  nel  procedimento  di
sorveglianza iscritto al n. SIUS 2018/2080 promosso da P. P., nato  a
Reggio Calabria il ..., detenuto presso la Casa reclusione di ..., in
esecuzione della pena  dell'ergastolo  di  cui  al  provvedimento  di
cumulo emesso dalla Procura generale della Repubblica presso la Corte
appello Reggio Calabria in data 15 maggio 2014,  poi  modificato  con
successivo provvedimento di rideterminazione della pena  in  data  18
aprile  2019,  procedimento  avente  ad   oggetto   reclamo   avverso
provvedimento di  inammissibilita'  di  istanza  di  permesso  premio
emesso dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto; 
 
                               Osserva 
 
    Con provvedimento in  data  8  novembre  2018  il  Magistrato  di
sorveglianza di Spoleto dichiarava inammissibile l'istanza diretta ad
ottenere la concessione di un  permesso  premio  ai  sensi  dell'art.
30-ter ord.  penit.  pervenuta  da  P.  P.,  motivando  cio'  con  la
considerazione che l'interessato espia  la  pena  dell'ergastolo  con
isolamento diurno in relazione ad  un  provvedimento  di  cumulo  che
comprende  condanne  tutte  per  delitti  rientranti   nel   disposto
dell'art.  4-bis,  comma  1,  ord.  penit.,  ostative  percio'   alla
concessione del permesso. 
    Si aggiungeva che il P. aveva tentato in passato anche la  strada
della richiesta di  declaratoria  di  impossibilita'  della  condotta
collaborativa ai sensi dell'art. 4-bis,  comma  1-bis,  ord.  penit.,
unica alternativa ad una collaborazione effettiva con la giustizia ex
art.  58-ter  ord.  penit.   per   superare   l'altrimenti   assoluta
ostativita'  alla  concessione  di  benefici,  ottenendo  pero'   una
pronuncia negativa sul punto da parte del Tribunale  di  sorveglianza
di Perugia con l'ordinanza in data 19 luglio 2012,  che  la  riteneva
ancora praticabile,  a  fronte  di  zone  d'ombra  non  completamente
chiarite dalle condanne che avevano attinto l'allora istante. 
    La  difesa  del  P.  ha  reclamato  dinanzi   al   Tribunale   di
sorveglianza sostenendo che l'interessato si trova oggi in esecuzione
di quote di pena per delitti diversi da quelli  interamente  ostativi
ricompresi nel disposto dell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit.,  anche
alla luce dell'insegnamento della S.C. per il quale in caso di cumulo
giuridico che abbia condotto alla pena dell'ergastolo con  isolamento
diurno occorre sciogliere  il  cumulo  in  favore  del  condannato  e
ritenere che, mediante il predetto isolamento  diurno,  l'interessato
abbia espiato gia' meta' della pena  temporanea  relativa  a  delitto
ostativo. 
    In subordine, in caso di mancato  accoglimento  del  reclamo  nei
termini sin qui enunciati, la difesa dell'interessato ha  chiesto,  e
ribadito la richiesta con memoria  anche  in  occasione  dell'odierna
udienza, che il Tribunale di sorveglianza sospenda la  sua  decisione
in  attesa  della  risoluzione  della   questione   di   legittimita'
costituzionale sollevata dalla S.C. con ordinanza n. 57913/2018 circa
l'art. 4-bis, comma 1, ord. penit. nella parte in cui esclude che  il
condannato  all'ergastolo  per  delitti  commessi  avvalendosi  delle
condizioni di cui all'art. 416-bis codice penale, ovvero al  fine  di
agevolare l'attivita' delle associazioni previste dalla stessa norma,
che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla
fruizione di un permesso premio, poiche' in caso di  declaratoria  di
illegittimita' costituzionale della norma, la richiesta  di  permesso
dovrebbe  considerarsi  comunque  ammissibile  e,   a   quel   punto,
l'interessato meriterebbe, dopo lunga detenzione, la concessione  del
permesso richiesto. 
    Per le ragioni che si  diranno,  il  presente  procedimento  deve
essere  sospeso  per  rimessione  alla  Corte  costituzionale   della
questione di legittimita' dell'art. 4-bis, comma 1 ord. penit.  nella
parte in cui esclude che il condannato alla  pena  dell'ergastolo  in
relazione a condanne  per  delitti  commessi  al  fine  di  agevolare
l'attivita' di associazioni ex art.  416-bis  codice  penale  di  cui
abbia fatto parte, che non abbia  collaborato  con  la  giustizia  ai
sensi  dell'art.  58-ter  ord.  penit.,  possa  essere  ammesso  alla
fruizione di un permesso premio. 
    Occorre premettere, anche al fine  di  evidenziare  la  rilevanza
della questione che si intende sottoporre all'esame del Giudice delle
leggi, che non puo'  accogliersi  la  ricostruzione  difensiva  circa
l'ammissibilita' del chiesto permesso premio per  avere  il  P.  gia'
interamente espiato la quota di pena  relativa  a  delitti  ostativi,
poiche' rientranti nel disposto dell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit. 
    Infatti  l'interessato  esegue   la   pena   dell'ergastolo   con
isolamento diurno (gia' svolto)  in  relazione  a  quattro  condanne,
confluite in un provvedimento di cumulo, rispettivamente alla pena di
anni 5 di reclusione per partecipazione ad associazione a  delinquere
ex art. 416-bis codice penale  (sentenza  Corte  appello  Messina  17
giugno 2000),  dell'ergastolo  con  isolamento  diurno  per  omicidio
commesso nel contesto e per le finalita' della guerra tra  cosche  di
ndrangheta avvenuta nel territorio reggino alla fine degli anni  '80,
dunque  finalizzata  all'agevolazione   del   gruppo   criminale   di
appartenenza (sentenza Corte assise appello Reggio Calabria 23 giugno
2000), di anni 13  di  reclusione  per  estorsione  aggravata,  fatto
commesso  nell'anno  1993  (sentenza  Corte  assise  appello   Reggio
Calabria 3 aprile 2001) e di anni 30  di  reclusione  nuovamente  per
associazione a delinquere di stampo mafioso ed omicidio commessi  nel
contesto della guerra di ndrangheta, fatti del 1989  (sentenza  Corte
assise appello Reggio Calabria 9 maggio 2001). 
    Da ultimo, pronunciandosi su una richiesta  di  continuazione  da
parte dell'interessato, la Corte assise appello  Reggio  Calabria  ha
ulteriormente chiarito come gli episodi omicidiari di cui il P. si e'
reso protagonista si collegano alle finalita' perseguite dalla cosca,
nella quale  il  condannato,  con  grado  di  «sgarrista»  (per  come
ricostruito anche  nella  gia'  citata  ordinanza  del  Tribunale  di
sorveglianza di Perugia) ricopriva un ruolo  attivo  nelle  attivita'
estorsive e nei gruppi di fuoco protagonisti degli scontri con i clan
avversi tra la fine degli anni '80 ed i primi anni '90. 
    L'intera  pena  dell'ergastolo  risulta  pertanto  ostativa  alla
concessione del permesso premio, ne' l'operazione dello  scioglimento
del cumulo, per come elaborato dalla giurisprudenza della S.C.,  puo'
in un caso simile comportare alcun vantaggio  per  l'interessato,  in
presenza di almeno una condanna ostativa che  gia'  prevede  la  pena
perpetua. Neppure viene correttamente evocata la giurisprudenza della
Cassazione, esemplificata da ultimo nella  sentenza  n.  988  del  27
settembre 2017, a mente della  quale  «in  materia  di  richiesta  di
accesso alle misure alternative alla  detenzione  del  condannato  in
espiazione dell'ergastolo e di pena detentiva temporanea inflitta per
reato ostativo ex art. 4-bis della legge 26 luglio 1975 n.  354  (cd.
ordinamento  penitenziario),  allorche'  si  debba   procedere   allo
scioglimento del  cumulo  per  la  verifica  della  gia'  intervenuta
espiazione di quest'ultima - tradottasi, per la  concorrenza  con  la
pena perpetua, in applicazione dell'isolamento diurno che  sia  stato
interamente eseguito - si deve avere riferimento alla pena temporanea
originariamente inflitta, ridotta della meta'.» poiche' nel caso  che
ci  occupa  ad  essere  ostativa  non  e'  la  sola  pena  temporanea
concorrente, ma la stessa pena dell'ergastolo,  legata  appunto  alla
commissione di un delitto ostativo. 
    Da tale ricostruzione consegue la correttezza  della  motivazione
sul  punto  del  provvedimento  del  Magistrato  di  sorveglianza  di
Spoleto. 
    Deve essere tuttavia esaminata  la  richiesta  subordinata  della
difesa dell'istante  che,  pur  evocando  una  ipotesi  di  impropria
sospensione del procedimento in attesa della decisione  di  questione
di'  legittimita'  costituzionale  da  parte  della   Consulta,   che
considera rilevante in materia, sostanzialmente richiede al Tribunale
di  sorveglianza  di  vagliarne  a  sua  volta   la   non   manifesta
infondatezza per poter assumere le decisioni conseguenti. 
    Con l'ordinanza 20 novembre 2018, n. 57913 la S.C.  ha  sollevato
questione di legittimita' costituzionale dell'art.  4-bis,  comma  1,
ord.  penit.,  nella  parte  in  cui  esclude   che   il   condannato
all'ergastolo per delitti commessi avvalendosi  delle  condizioni  di
cui  all'art.  416-bis  codice  penale,  o  al  fine   di   agevolare
l'attivita' delle  associazioni  in  esso  previste,  che  non  abbia
collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione  di
un permesso premio, con  riferimento  agli  articoli  3  e  27  della
Costituzione. 
    Non  sembra  superfluo  a  questo   Tribunale   di   sorveglianza
ripercorrere i passaggi essenziali  dell'ordinanza  della  S.C.,  sia
perche' condivisi dal Collegio, sia per evidenziarne  tratti  di  non
completa sovrapponibilita' con  la  fattispecie  di  cui  all'odierno
procedimento,  che  pure  devono  sottoporsi  all'esame  della  Corte
costituzionale. 
    Come nell'odierno procedimento, anche  in  quello  all'attenzione
della Cassazione, ci si occupa della richiesta di un condannato  alla
pena dell'ergastolo di fruire di un permesso premiale, rigettata  dal
magistrato di sorveglianza competente, con  decisione  confermata  in
sede di reclamo dal Tribunale di sorveglianza, poiche' si afferma che
lo stesso si trova in espiazione di' pena per delitti commessi con la
finalita' di agevolazione di una associazione ex art. 416-bis  codice
penale. In un tale caso, infatti, soltanto la scelta  di  collaborare
con  la  giustizia,  invece  non  avvenuta,  potrebbe  comportare  la
fuoriuscita dal regime di assoluta ostativita'. 
    Nessuna  valutazione  puo'  pero'   farsi   in   concreto   sulla
pericolosita' sociale del condannato, aggiunge la  S.C.,  perche'  la
magistratura  di  sorveglianza  deve,  di  fronte  a  tale   assoluta
ostativita', dichiarare soltanto l'inammissibilita' dell'istanza, con
la conseguenza della rilevanza per  il  giudizio  sottopostole  della
questione di legittimita' costituzionale prospettata che, in caso  di
accoglimento, consentirebbe la rimessione al giudice del merito, come
giudice  di  rinvio,  con  il  compito  di   verificare   l'eventuale
meritevolezza del beneficio premiale. 
    Circa le  ragioni  che  sorreggono  la  questione,  viene  citato
innanzitutto il complesso filone giurisprudenziale  formatosi  grazie
ai ripetuti interventi della Corte costituzionale sui  parametri  che
orientano  il  giudice  nell'applicazione  delle   misure   cautelari
personali, in  particolare  quando  si  afferma  che  le  presunzioni
assolute,  ove  limitative  di  diritti  fondamentali,   violano   il
principio di eguaglianza se sono arbitrarie e irrazionali ovvero  «se
non rispondono a dati di esperienza  generalizzati,  riassunti  nella
formula dell'id quod plerumque  accidit»  (Corte  cost.  sentenza  n.
139/2010, tra le altre, e da ultimo  sentenza  n.  57/2013),  con  la
conseguenza di  una  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale
dell'art. 275, comma 3 sec. per. codice  di  procedura  penale  nella
parte in cui «nel prevedere che, quando sussistono  gravi  indizi  di
colpevolezza  in  ordine  ai  delitti  commessi   avvalendosi   delle
condizioni previste dall'art. 416-bis del  codice  penale  ovvero  al
fine di  agevolare  l'attivita'  delle  associazioni  previste  dallo
stesso articolo, e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo
che siano acquisiti elementi dai quali  risulti  che  non  sussistono
esigenze cautelari - non fa salva altresi'  l'ipotesi  in  cui  siano
acquisiti elementi specifici, in  relazione  al  caso  concreto,  dai
quali risulti che le esigenze cautelari  possono  essere  soddisfatte
con altre misure» (sentenza Corte costituzionale n. 57/2013 cit.). 
    Ed infatti «la possibile estraneita' dell'autore di tali  delitti
a un'associazione di tipo mafioso fa escludere che si sia  sempre  in
presenza di un reato che implichi o  presupponga  necessariamente  un
vincolo di appartenenza  permanente  a  un  sodalizio  criminoso  con
accentuate caratteristiche di pericolosita'  -  per  radicamento  nel
territorio,   intensita'   dei   collegamenti   personali   e   forza
intimidatrice - vincolo che solo la misura piu' severa  risulterebbe,
nella generalita' dei casi, in grado di interrompere» (sentenza Corte
costituzionale n. 57/2013 cit.). 
    Un indirizzo poi ribadito (cfr. sentenza Corte costituzionale  n.
48/2015) in relazione al  concorrente  esterno  nell'associazione  ex
art. 416-bis codice penale, nei  confronti  del  quale  pure  non  e'
sussistente un vincolo di adesione permanente  al  sodalizio  mafioso
che legittima il ricorso esclusivo alla custodia cautelare in carcere
«quale unico strumento idoneo a recidere  i  rapporti  dell'indiziato
con l'ambiente associativo, neutralizzandone la pericolosita'». 
    Sotto  tale  primo  profilo,  dunque,  secondo   la   Cassazione,
l'assoluta ostativita' alla concessione di benefici penitenziari  per
il  condannato  per  un  delitto  commesso  con   la   finalita'   di
agevolazione di una associazione ex art. 416-bis codice  penale,  non
distinguendo tale posizione da quella degli affiliati, confliggerebbe
con i principi affermati dalla Corte  costituzionale  in  materia  di
presunzioni assolute di pericolosita' sociale. 
    Da questo punto di vista la  posizione  dell'odierno  interessato
differisce da quella esaminata dalla Cassazione,  poiche'  il  P.  e'
stato condannato per delitti commessi al fine di agevolare il  gruppo
criminale organizzato ex art. 416-bis  codice  penale  del  quale  e'
stato riconosciuto partecipe con ruolo  sviluppatosi  nel  corso  del
tempo nelle diverse vicende criminose che lo hanno visto protagonista
negli anni compresi tra il 1987 ed il 1993. Si ritiene tuttavia,  per
le ragioni che saranno meglio in seguito evidenziate,  che  anche  la
sua  posizione  meriti  un  vaglio  circa  la  pericolosita'  sociale
realizzato in concreto dal competente magistrato  di  sorveglianza  e
non   precluso   assolutamente,   come   invece   accade   a    causa
dell'ostativita' prevista  dalla  disposizione  normativa  della  cui
legittimita' costituzionale si dubita. 
    La S.C. segnala poi, con la citata ordinanza di rimessione del 20
novembre 2018, n.  57913,  con  motivazioni  che  qui  si  richiamano
diffusamente perche' interamente condivise dal Collegio,  che  a  sua
volta le sottopone alla Corte costituzionale, un secondo  profilo  di
criticita' della disposizione di cui all'art. 4-bis,  comma  1,  ord.
penit., ricordando l'orientamento della Consulta che ha stigmatizzato
piu' volte, nel corso degli ultimi anni, il ricorso alle  preclusioni
assolute nel campo dell'esecuzione della pena. 
    Con la sentenza Corte costituzionale n. 239/2014 si  e'  tagliata
fuori dal perimetro dell'ostativita' assoluta la  misura  domiciliare
speciale per condannate madri di prole di eta' non superiore a  dieci
anni di  cui  all'art.  47-quinquies  ord.  penit.,  collegandone  la
concessione ad un esame di merito che pero' evidenzi  l'insussistenza
di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti. 
    Ed infatti si e' affermato che l'omologazione  sotto  il  profilo
dell'ostativita' di misure alternative diverse  ed  eterogenee  nelle
finalita' risulta lesiva dei  parametri  costituzionali  ed  illogica
rispetto anche all'obbiettivo di incentivazione della collaborazione:
«Un conto, infatti, e' che tale strategia  venga  perseguita  tramite
l'introduzione  di  uno  sbarramento  alla  fruizione   di   benefici
penitenziari costruiti - com'e' di norma - unicamente  in  chiave  di
progresso  trattamentale  del  condannato,  sbarramento   rimuovibile
tramite la condotta collaborativa; altro conto e' che la  preclusione
investa  una  misura  finalizzata  in  modo  preminente  alla  tutela
dell'interesse di  un  soggetto  distinto  e,  al  tempo  stesso,  di
particolarissimo rilievo, quale quello del minore in  tenera  eta'  a
fruire delle condizioni per un migliore e piu'  equilibrato  sviluppo
fisio-psichico. In questo modo, il "costo" della strategia  di  lotta
al crimine organizzato viene traslato su un soggetto terzo,  estraneo
tanto alle attivita' delittuose che hanno dato luogo  alla  condanna,
quanto alla scelta del condannato di non collaborare. La  conclusione
non muta, peraltro, neppure se  si  guarda  all'altra  e  concorrente
ratio del regime considerato,  scrutinata  in  precedenza  con  esito
positivo da questa Corte e legata  piu'  direttamente  alla  funzione
rieducativa della pena. La subordinazione  dell'accesso  alle  misure
alternative ad un indice legale del "ravvedimento" del  condannato  -
la condotta collaborativa, in quanto  espressiva  della  rottura  del
"nesso"  tra  il  soggetto  e  la  criminalita'  organizzata  (nesso,
peraltro, a sua volta presuntivamente desunto dal tipo di  reato  che
fonda il titolo detentivo) - puo' risultare giustificabile quando  si
discuta  di  misure  che  hanno  di  mira,  in  via   esclusiva,   la
risocializzazione dell'autore della condotta illecita. Cessa, invece,
di esserlo quando al centro della tutela  si  collochi  un  interesse
"esterno" ed eterogeneo, del genere di quello che al  presente  viene
in rilievo.». 
    Tale secondo  percorso  argomentativo  ha  trovato  un  ulteriore
passaggio importante nella sentenza Corte costituzionale n.  149/2018
con  cui  si  e'  dichiarata  l'illegittimita'  costituzionale  della
particolare preclusione contenuta nell'art. 58-quater, comma 4,  ord.
penit. rispetto ai condannati a pena dell'ergastolo per sequestro  di
persona a scopo di estorsione che  abbiano  cagionato  la  morte  del
sequestrato, per la quale gli stessi non possono  accedere  ad  alcun
beneficio indicato nel comma 1 dell'art. 4-bis  ord.  penit.  (lavoro
all'esterno, permessi premio, semiliberta' e liberazione condizionale
- tenuto conto del  rinvio  all'art.  4-bis,  comma  1,  ord.  penit.
dell'art. 2, decreto-legge n. 152/1991 poi  convertito  in  legge  n.
203/1991) se non abbiano effettivamente espiato almeno ventisei  anni
di reclusione. 
    In quella pronuncia la Consulta chiarisce che  i  principi  della
flessibilita'  delle  pene   e   della   progressione   trattamentale
costituiscono esplicazioni  dell'art.  27  Cost.  vanificate  da  uno
sbarramento uniforme e frustrante della necessaria gradualita'  negli
interventi trattamentali. 
    Richiamato tale secondo filone giurisprudenziale,  la  Cassazione
evidenzia, con argomentazioni che ancora una  volta  il  Collegio  fa
proprie, come il meccanismo preclusivo di cui all'art.  4-bis,  comma
1, ord. penit. identifichi  nella  collaborazione  con  la  giustizia
(vicariata unicamente dall'impossibilita' o  inesigibilita'  di  tale
condotta, ove accertata dal Tribunale di sorveglianza  competente  in
via incidentale rispetto ad una richiesta di beneficio penitenziario,
per come  previsto  nel  comma  1-bis  della  disposizione  normativa
citata), l'unica via per accedere ad una valutazione di merito  circa
la sussistenza dei requisiti per la concessione dei benefici indicati
nell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit. 
    E pur dato atto che tale condotta costituisce una  manifestazione
inequivoca del distacco  dell'interessato  dal  gruppo  criminale  di
riferimento, tuttavia non puo' per cio' solo dirsi  che  sia  davvero
l'unica  «prova  legale  esclusiva  di  ravvedimento»,  perche'  sono
plurime  la  ragioni  che  possono  indurre  un  condannato   a   non
collaborare (il rischio per la propria incolumita' e per  quella  dei
propri  congiunti,  il  rifiuto  morale  di   rendere   dichiarazioni
accusatorie nei  confronti  di'  persone  a  lui  legate  da  vincoli
affettivi o amicali, o il ripudio di una collaborazione che rischi di
apparire strumentale alla concessione di un beneficio...)  senza  che
da tale  rifiuto  possa  evincersi  l'assenza  di  una  significativa
progressione trattamentale e senza che,  percio',  possa  inferirsene
una perdurante pericolosita' sociale. 
    In materia  di  permessi  premio,  in  particolare,  i  dubbi  si
accrescono,  tenendo  conto  della  peculiarita'  dell'istituto,  per
ottenere il quale sono sufficienti requisiti diversi e meno pregnanti
del ravvedimento, richiesto per ottenere la liberazione  condizionale
(fattispecie  scrutinata  in  passato  dalla   Corte   costituzionale
rispetto alle ostativita' dell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit:  cfr.
sentenza Corte costituzionale n. 135/2003), e  della  sua  necessita'
per  favorire  ulteriori  progressioni  trattamentali  e   soddisfare
esigenze di cura di interessi affettivi, culturali o lavorativi. 
    Utilizzando le espressioni della  Cassazione,  nell'ordinanza  di
rimessione citata: «l'innalzamento della scelta collaborativa a prova
legale non solo di ravvedimento ma anche di assenza di pericolosita',
senza  alcuna  possibilita'  di  apprezzamento  in   concreto   della
situazione del  detenuto  alla  stregua  di  individualizzazione  del
trattamento,  non  tiene  conto  della  diversita'  strutturale   del
permesso premio ex art. 30-ter ord. pen., dalla  natura  contingente,
rispetto  alle  misure  alternative  alla  detenzione,  condizionando
negativamente il trattamento del detenuto in violazione dell'art.  27
Cost.», conclusioni ritraibili anche dalla gia' citata sentenza Corte
costituzionale   n.   149/2018,   che   escludeva   la   legittimita'
costituzionale di una preclusione all'accesso ai benefici  che  neghi
una  valutazione  individualizzata  del  trattamento   penitenziario,
fondata   su   esigenze   di   prevenzione   speciale   concretamente
riscontrate, perche' cio' condurrebbe altrimenti al sacrificio  della
finalita' rieducativa, costituzionale, della pena. 
    Il Tribunale di sorveglianza di Perugia ritiene di condividere  i
dubbi sulla legittimita' costituzionale  dell'art.  4-bis,  comma  1,
ord. penit. gia' fatti propri dalla Cassazione con l'ordinanza che si
e' qui ampiamente richiamata, proponendo a propria volta la questione
di legittimita'  costituzionale  che,  pero',  deve  estendersi  alla
preclusione alla possibilita' di essere ammesso alla fruizione di  un
permesso premio per il condannato alla pena dell'ergastolo che  abbia
commesso delitti con  la  finalita'  di  agevolazione  di  un  gruppo
criminale  ex  art.  416-bis  codice  penale  del  quale  sia   stato
riconosciuto partecipe. 
    Circa la rilevanza della detta questione in relazione all'odierno
procedimento, sembra  sufficiente  precisare  come,  a  fronte  della
posizione giuridica dell'interessato, tenuto conto dei delitti per  i
quali  esegue  la  pena,   soltanto   l'eventuale   declaratoria   di
illegittimita' costituzionale della  sin  qui  descritta  preclusione
assoluta  alla  concessione  del  permesso  premio  consentirebbe  al
Tribunale di sorveglianza di non provvedere con rigetto  del  reclamo
per inammissibilita' dell'istanza di permesso premio e  di  vagliarne
invece la meritevolezza nel caso concreto, e cioe' di  verificare  se
sussistano i requisiti  di  merito  indicati  nell'art.  30-ter  ord.
penit. in ordine al mantenimento di una regolare  condotta  da  parte
del condannato nel corso della sua detenzione (per  come  specificato
nell'art.  30-ter,  ult.  comma  ord.  penit.  cio'  significa   aver
manifestato costante  senso  di  responsabilita'  e  correttezza  nel
comportamento personale, nelle attivita' organizzate negli istituti e
nelle  eventuali   attivita'   lavorative   o   culturali)   nonche',
trattandosi appunto di  condannato  per  delitti  compresi  nell'art.
4-bis, comma  1,  ord.  penit.,  il  requisito  dell'acquisizione  di
elementi tali  da  escludere  l'attualita'  di  collegamenti  con  la
criminalita' organizzata. 
    L'odierno   reclamante,    infatti,    condannato    alla    pena
dell'ergastolo  con  isolamento  diurno  per  delitti  compresi   nel
disposto dell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit., e'  ininterrottamente
detenuto dal marzo 1995, ha dunque vissuto oltre ventiquattro anni di
pena effettiva, ha fruito di gg. 2160 di liberazione  anticipata  per
aver partecipato all'opera rieducativa condotta  nei  suoi  confronti
(mantenendo tale condotta anche nei sette anni trascorsi in  istituti
penitenziari ove ha subito condizioni  detentive  inumane,  per  come
riconosciuto nel  provvedimento  del  Tribunale  di  sorveglianza  di
Perugia in data 21 giugno 2018, adito ex art. 35-ter ord. penit.),  e
soddisfa  dunque  l'altro  requisito  di  ammissibilita'   (raggiunto
nell'anno  2005)  per  la  concessione  di  un  permesso  premio   al
condannato alla pena dell'ergastolo, concernente  l'aver  espiato  la
quota di pena di almeno anni 10 indicata dall'art. 30-ter,  comma  4,
lettera d) ord. penit. 
    L'interessato, per come detto, non  ha  mai  collaborato  con  la
giustizia e il Tribunale di sorveglianza di Perugia, con  l'ordinanza
emessa nell'anno 2012, ha rigettato una richiesta di declaratoria  di
collaborazione impossibile o inesigibile con la giustizia,  ritenendo
che nei fatti per i quali sono intervenute sentenze di  condanna  nei
suoi confronti ci siano ancora zone d'ombre da considerarsi passibili
di chiarimento da parte sua, secondo il percorso logico seguito nelle
motivazioni di quel provvedimento (una valutazione del  Tribunale  di
sorveglianza che si collega alla lettura dei titoli  di  condanna  e,
caso  per  caso,  dipende  dalla  completezza  o  lacunosita'   delle
dichiarazioni dei collaboratori, dalla sussistenza di altre fonti  di
prova, da molti dati eminentemente  estrinseci  rispetto  all'istante
che, comunque, non ha mai reso dichiarazioni collaborative). 
    Se fosse accolta la questione di legittimita' costituzionale, non
vi  sarebbe  affatto  una  automatica   concessione   del   beneficio
richiesto, ma  si  consentirebbe  al  Tribunale  di  sorveglianza  di
vagliare nel  caso  concreto  (in  tal  senso  negli  stessi  termini
indicati con la sentenza Corte  costituzionale  n.  57/2013,  tra  le
altre), quale  sia  stato  il  percorso  trattamentale  compiuto  dal
condannato ed esaminare, ancora una volta in  modo  specifico,  quale
sia la pericolosita' sociale attuale dello stesso,  deducendola,  per
come  piu'  volte  ribadito  dalla  S.C.,   dal   suo   comportamento
intramurario, dall'avvio di  un  percorso  di  rivisitazione  critica
rispetto ai  propri  trascorsi  criminali  (vd.  da  ultimo  sentenza
Cassazione 11 ottobre 2016, n. 5505), nonche' da tutto  il  compendio
di informazioni acquisite dalle forze dell'ordine sul territorio,  ad
esempio sull'operativita' ancora  attuale  del  gruppo  criminale  di
appartenenza o di compagini che si siano sviluppate dalle sue ceneri,
comprese quelle richieste al comitato provinciale per l'ordine  e  la
sicurezza pubblica ai sensi dell'art. 4-bis, comma 2, ord. penit. 
    Cio' di cui il Tribunale di sorveglianza  di  Perugia  dubita  in
questa sede, conformemente a quanto sul punto  indicato  anche  dalla
Cassazione, e' che sia compatibile con gli  articoli  3  e  27  Cost.
l'elevazione della collaborazione con la giustizia a prova legale del
venir meno della pericolosita' sociale del condannato, impedendo  che
la  magistratura  di  sorveglianza  vagli  nel   caso   concreto   la
sussistenza di tale comportamento (di sicura centrale importanza), ma
al fianco di altri che possono avere particolare importanza nel  caso
posto alla sua attenzione. Anche oggi, infatti, se pur collaborazione
vi e' stata,  superata  l'ostativita'  assoluta  ai  sensi  dell'art.
58-ter ord. penit.,  il  Tribunale  di  sorveglianza  e'  chiamato  a
verificare in concreto l'evoluzione personologica del condannato e in
questo  contesto  anche  le  ragioni  che  lo  hanno  condotto   alla
collaborazione. Quel che si chiede e' che cio' possa farsi anche  per
l'opzione opposta, al fine di valutare nel caso concreto  le  ragioni
che hanno indotto l'interessato a mantenere il silenzio. Premesso che
il diritto a mantenerlo, anche di recente scrutinato,  pur  su  altra
materia, dalla Corte  costituzionale  (cfr.  ordinanza  n.  117/2019)
quale  principio  fondamentale  dell'ordinamento   costituzionale   e
descritto come «corollario essenziale dell'inviolabilita' del diritto
di difesa, riconosciuto dall'art. 24 Cost.» e «appartenente al novero
dei diritti inalienabili della  persona  umana»,  quando  le  proprie
dichiarazioni   possano   rivelarsi   autoaccusatorie,    entra    in
significativa frizione con un meccanismo che  impedisce  l'accesso  a
ogni misura extramuraria se non vi si rinuncia, e' necessario che  si
possa  tener  conto  delle  ragioni  che,  anche  al  di  la'   delle
propalazioni  autoaccusatorie,   incidono   sulla   scelta   di   non
collaborare  attivamente:  timori   per   la   propria   e   l'altrui
incolumita', in particolare di congiunti e familiari che, ad esempio,
non possano sradicarsi dai luoghi di origine in cui furono commessi i
reati; rifiuto di causare la carcerazione di altri, con i  quali,  ad
esempio, si abbia o si sia avuto un  legame  familiare  o  affettivo,
magari a distanza di molti anni dagli  eventi;  rifiuto  di  accedere
alla collaborazione perche' non si vuole essere  tacciati  di  averlo
fatto soltanto per calcolo utilitaristico, per una riduzione di  pena
o per ottenere un beneficio penitenziario. 
    E al fianco di questo dato si chiede di poter tener  conto  anche
di altri indici  che  ben  possono  contribuire  ad  una  valutazione
concreta circa l'assenza di una  attuale  pericolosita'  sociale  del
condannato e che si collegano proprio  al  trattamento  penitenziario
nel tempo offertogli, o a  comportamenti  chiaramente  indicativi  di
dissociazione dalle  associazioni  criminali  di  appartenenza  o  di
concreto impegno in favore delle vittime dei reati commessi. 
    Queste considerazioni vengono particolarmente in rilievo rispetto
all'istanza di permesso premio per motivi familiari che sta alla base
dell'odierno  procedimento.  Infatti,  per  come   sopra   ricordato,
l'assoluta ostativita' del comma  1,  art.  4-bis,  ord.  penit.  non
soltanto impedisce la valutazione degli elementi specifici  collegati
alla persona, finendo cosi' per  travolgere  la  possibilita'  di  un
vaglio individualizzato del percorso trattamentale  seguito  ma,  non
distinguendo tra differenti benefici  penitenziari,  ne  comprime  le
peculiarita',  richiedendo  la  collaborazione   tanto   come   prova
necessaria per dimostrare il ravvedimento del  condannato  (requisito
proprio della sola liberazione condizionale), quanto per un  permesso
premio che richiede la piu' modesta regolare condotta,  seppur  ricca
di contenuti per come  indicato  dallo  stesso  legislatore  e  dalla
giurisprudenza formatasi sul punto. 
    Di piu', l'impossibilita' di  approfondire  il  proprio  percorso
trattamentale mediante le sperimentazioni esterne  finisce  di  fatto
per bloccarne la naturale individualizzata  evoluzione.  Il  permesso
premio, infatti, e' uno  strumento  fondamentale  per  consentire  al
condannato  di  progredire  nel  senso  di  responsabilita'  e  nella
capacita'  di  gestirsi  nella  legalita',   e   al   Magistrato   di
sorveglianza di vagliare i  progressi  trattamentali  compiuti  e  la
capacita', mediante le stringenti  prescrizioni  che  possono  essere
imposte, di reinserirsi, per quanto brevemente, nel tessuto sociale. 
    Tale momento di passaggio stimola, inoltre, l'approfondimento dei
risultati raggiunti, aprendo alla possibilita'  che  il  fruirne  nel
tempo  e  con  regolarita',  in  assenza  di  eventuali   involuzioni
comportamentali,   faccia   emergere   un   sempre   piu'    convinto
allontanamento  dal  sistema  di   vita   criminale   in   precedenza
abbracciato, produca uno sradicamento da eventuali  contesti  sociali
controindicati, influenzi condotte di aperta  dissociazione  o,  come
adombrato dalla Cassazione nell'ordinanza di rimessione del  novembre
2018,  stimoli  condotte  collaborative,  altrimenti  ormai   escluse
dall'orizzonte volitivo dell'interessato, che  rischia  di  adagiarsi
nel trascorrere degli anni in una istituzionalizzazione inerte. 
    L'ammissibilita' del beneficio premiale, strumento di costruzione
della responsabilita' del condannato e sprone verso il reinserimento,
necessariamente prodromico alla concessione di misure alternative, e'
allora  anche  garanzia  che  gli  operatori  penitenziari  investano
pienamente tempo  e  risorse  sulla  osservazione  scientifica  della
personalita'  dell'interessato  e  non  finiscano  per  svuotare,  in
assenza di una pronuncia che lo sciolga  dall'ostativita',  il  senso
del tempo trascorso in  detenzione,  indefettibilmente  tendente,  ex
art. 27 Cost., alla rieducazione, soprattutto qui  dove  parliamo  di
una pena perpetua che, nel caso che  ci  occupa,  e'  iniziata  oltre
ventiquattro anni fa. 
    Il  condannato,   infatti,   tenuto   conto   della   liberazione
anticipata, ha gia' maturato persino i termini  per  una  liberazione
condizionale ma, a prescindere  dalla  meritevolezza  di  quell'ampio
beneficio, che sino ad ora nessun provvedimento della magistratura di
sorveglianza  ha  potuto  vagliare  in  presenza  della   preclusione
assoluta, non si e' mai potuto  sperimentare  nei  ridotti  spazi  di
liberta',   molto   piu'    facilmente    monitorabili,    consentiti
dall'istituto del permesso premiale. 
    Lo stesso parere contrario espresso dalla Direzione dell'istituto
penitenziario alla concessione  di  un  permesso  premio  si  collega
essenzialmente alla presenza di una fattispecie ostativa,  in  quanto
ricompresa nel disposto dell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit., mentre
l'aggiornamento del programma di trattamento in data 7  maggio  2019,
pur ricco di spunti  circa  gli  approfondimenti  psicologici  ed  il
percorso intramurario dell'interessato, si apre  (e  si  chiude)  con
l'espresso  riferimento:  «al  momento  per  il  detenuto  non   sono
prevedibili benefici di legge in ragione dei reati ostativi alla loro
concessione», con cio' manifestando quale ostacolo  alla  valutazione
concreta dell'evoluzione personologica  del  condannato  finisca  per
essere la declaratoria di inammissibilita' del beneficio che ne e' la
conseguenza inevitabile. 
    L'istituto del permesso premio, per altro, nel nostro ordinamento
ha  anche  l'obbiettivo  peculiare   di   garantire   all'interessato
l'esercizio pieno di  diritti,  altrimenti  legittimamente  compressi
dalla condizione detentiva, ed in particolare il  mantenimento  o  il
ristabilimento, dopo  anche  lungo  tempo,  delle  relazioni  con  la
famiglia. 
    Com'e' noto, e nonostante  progetti  di  modifica  normativa  non
coltivati e volti a superare questa forte limitazione, non e' infatti
consentita nell'attuale ordinamento penitenziario la possibilita'  di
incontri intimi intramurari con i  familiari,  con  cio'  impedendosi
l'esercizio della sessualita' e  di  ogni  eventuale  aspirazione  di
genitorialita' che, nel caso del condannato all'ergastolo,  diventano
una privazione senza termine. 
    Piu' in generale i rapporti con gli stretti congiunti fuori dalle
mura del carcere sono assolutamente inibiti, salva la concessione  di
permessi per gravi motivi, abitualmente di pochissime ore, in caso di
imminente pericolo di vita di un familiare o di un  evento  familiare
di particolare gravita' (entrambi requisiti valutati con rigore dalla
giurisprudenza  di  legittimita':  cfr.,  tra  le   altre,   sentenze
Cassazione n. 57813/2017 e  n.  40660/2011),  inibendo,  per  chi  e'
sottoposto alla pena dell'ergastolo perpetuamente,  la  presenza  del
detenuto ai momenti che costituiscono gli snodi fondamentali, pur  se
non luttuosi, della vita familiare. 
    Sotto tale profilo,  evidentemente,  considerazioni  legate  alla
pericolosita' sociale  individuale  del  condannato  ben  possono,  e
debbono, condurre al rigetto di un  beneficio  premiale,  che  quelle
esigenze potrebbe assolvere, ma la  sussistenza  di  una  preclusione
assoluta, sganciata da una valutazione del caso concreto e nel  tempo
comunque rivedibile,  appare  maggiormente  stridente  a  fronte  dei
diritti  fondamentali  compressi  (cfr.,  ancora  una  volta,  quanto
affermato con la sentenza Corte costituzionale  n.  239/2014),  anche
tenuto conto degli interessi «esterni ed eterogenei», per  utilizzare
le  parole  della  Consulta  in  quel  caso,  costituiti  qui   dalle
aspirazioni  al  mantenimento  dell'unita'  familiare  da  parte  del
coniuge o convivente e dei figli,  ma  anche  dei  genitori  di  eta'
inevitabilmente ingravescente,  che  nell'attuale  sistema  normativo
passa  per  come  visto  necessariamente  attraverso  l'istituto  del
permesso premio. Si consentono infatti in quel modo rientri periodici
nel contesto familiare e il mantenimento delle  relazioni  familiari,
altrimenti nel tempo sottoposte all'acuto rischio di una  progressiva
erosione (la stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 301/2012
parlava  di  questo  tema  descrivendolo  come  «esigenza   reale   e
fortemente  avvertita»,  «permettere  alle   persone   sottoposte   a
restrizione della liberta' personale di continuare ad avere relazioni
affettive intime, anche a  carattere  sessuale:  esigenza  che  trova
attualmente, nel nostro ordinamento, una risposta solo  parziale  nel
gia' ricordato  istituto  dei  permessi  premio,  previsto  dall'art.
30-ter della legge n. 354 del 1975,  la  cui  fruizione  -  stanti  i
relativi presupposti,  soggettivi  ed  oggettivi  -  resta  in  fatto
preclusa a larga parte della popolazione carceraria»). 
    Ancora, possono in  questa  sede  farsi  proprie  interamente  le
considerazioni della Corte costituzionale  che  hanno  condotto  alla
declaratoria di illegittimita' della preclusione  contenuta,  per  il
condannato all'ergastolo per  sequestro  di  persona  con  morte  del
sequestrato, nell'art. 58-quater ord. penit., in  particolare  quando
si afferma che: «l'appiattimento all'unica e  indifferenziata  soglia
di ventisei anni  per  l'accesso  a  tutti  i  benefici  penitenziari
indicati nel  primo  comma  dell'art.  4-bis  ord.  penit.  si  pone,
infatti,  in  contrasto  con  il  principio  -   sotteso   all'intera
disciplina dell'ordinamento penitenziario in  attuazione  del  canone
costituzionale  della  finalita'  rieducativa  della  pena  -   della
"progressivita' trattamentale e flessibilita' della  pena"  (sentenza
n. 255 del 2006; in senso conforme, sentenze n. 257 del 2006, n.  445
del 1997 e n. 504 del 1995), ossia  del  graduale  reinserimento  del
condannato all'ergastolo nel contesto sociale durante  l'intero  arco
dell'esecuzione della pena. Tale  principio  si  attua,  nel  disegno
della  legge  sull'ordinamento  penitenziario,  nell'ambito   di   un
percorso ideale le cui prime tappe sono rappresentate dall'ammissione
al lavoro all'esterno e dalla concessione di permessi  premio,  volti
questi ultimi  a  stimolare  la  "regolare  condotta"  del  detenuto,
attestata  dall'avere   questi   manifestato   "costante   senso   di
responsabilita' e  correttezza  nel  comportamento  personale,  nelle
attivita' organizzate negli  istituti  e  nelle  eventuali  attivita'
lavorative o culturali" - art. 30-ter, commi 1 e 8, ord. penit. -,  e
gia' definiti da questa Corte, con sentenza n.  403  del  1997,  "uno
strumento [...] spesso insostituibile per evitare che  la  detenzione
impedisca del tutto di coltivare interessi affettivi, culturali o  di
lavoro", funzionale  a  "perseguire  efficacemente  quel  progressivo
reinserimento armonico della persona nella societa', che  costituisce
l'essenza della finalita' rieducativa". Il  percorso  di  progressivo
reinserimento sociale dell'ergastolano prosegue poi, in caso di esito
positivo di questi primi esperimenti, con la sua ammissione  al  piu'
incisivo beneficio della semiliberta', che comporta  l'autorizzazione
a "trascorrere parte del giorno fuori dall'istituto  per  partecipare
ad attivita' lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento
sociale" (art. 48, primo comma, ord.  penit.);  ed  e'  destinato  ad
avere  il   suo   culmine   nella   concessione   della   liberazione
condizionale, subordinata all'accertamento che il  condannato  "abbia
tenuto  un  comportamento  tale  da  far  ritenere  sicuro   il   suo
ravvedimento" (art. 176, primo comma, codice penale) e caratterizzata
dall'integrale sospensione dell'esecuzione della pena residua, che si
estinguera' laddove non intervengano cause di revoca nei cinque  anni
successivi alla sua concessione  (art.  177,  secondo  comma,  codice
penale). (...) Con il connesso rischio che la semiliberta' -  pur  in
presenza  di  una  continua  e   fattiva   partecipazione   all'opera
rieducativa in carcere -  venga  in  concreto  negata  al  condannato
stesso  alla  scadenza  dei  ventisei  anni,   proprio   in   ragione
dell'assenza di sue previe positive esperienze al di fuori delle mura
penitenziarie nel secondo decennio di espiazione  della  pena,  sulla
base del costante insegnamento della giurisprudenza di  legittimita',
secondo cui la semiliberta'  -  in  quanto  misura  alternativa  alla
detenzione che consente al detenuto di trascorrere parte  del  giorno
all'esterno, sia pure in attivita' lavorative e socializzanti  -  non
puo'  essere  deliberata  se  non  all'esito  di  previe  e  positive
esperienze  di  concessione  di   altre   misure   alternative   meno
impegnative, nel medesimo contesto territoriale  di  fruizione  della
semiliberta' (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione prima penale,
sentenze 29 settembre 2009, n. 41914 e 14 ottobre  2008,  n.  40992);
principio che ben potrebbe essere esteso,  a  maggior  ragione,  alla
stessa  liberazione  condizionale,  alla  quale  pure  il  condannato
potrebbe teoricamente accedere anche prima dei ventisei anni.» 
    La Corte  costituzionale,  sempre  nella  sentenza  n.  149/2018,
prosegue poi affermando che:  «a  tale  profilo  di  irragionevolezza
intrinseca della disciplina nel  prisma  della  funzione  rieducativa
della pena denunciato dal giudice  rimettente  puo',  d'altra  parte,
aggiungersi l'ulteriore considerazione che la disposizione censurata,
sterilizzando ogni effetto pratico delle detrazioni di pena a  titolo
di liberazione anticipata sino al termine di  ventisei  anni,  riduce
fortemente,  per   il   condannato   all'ergastolo,   l'incentivo   a
partecipare all'opera di rieducazione, in cui si sostanzia  la  ratio
dello stesso istituto della liberazione anticipata (sentenze  n.  186
del 1995 e n. 276 del 1990). Al riguardo,  va  infatti  ribadito  che
l'unica conseguenza pratica delle detrazioni di pena conseguenti alla
liberazione anticipata per il condannato all'ergastolo - per il quale
potenzialmente  il  fine  pena  e'  "mai"  -  consiste  proprio   nel
meccanismo di  anticipazione  dei  termini  per  la  concessione  dei
singoli benefici; meccanismo che costituisce, sin dal primo  semestre
di pena, un  potente  stimolo  per  l'ergastolano  a  partecipare  al
programma rieducativo, in vista -  in  particolare  -  del  possibile
accesso ai primi benefici, una volta raggiunto il traguardo  di  otto
anni dall'inizio della pena (sentenza n. 274 del 1983).» 
    Un'analoga sterilizzazione della  valenza  dei  provvedimenti  di
liberazione anticipata, pur nel caso di specie copiosamente  ottenuta
dall'interessato  (P.  ha  avuto   una   positiva   valutazione   per
quarantotto semestri, pari a 2160 gg. di riduzione pena, nel suo caso
pero' senza alcun effetto concreto), si ha nel caso  che  ci  occupa,
con  conseguente  analogo   disincentivo   alla   partecipazione   al
trattamento,  non  potendo  l'odierno  reclamante   in   alcun   modo
avvantaggiarsene, neppure per anticipare il momento di  fruizione  di
benefici extramurari. 
    Sotto altro profilo, per come premesso, la  posizione  soggettiva
dell'odierno reclamante  e'  quella  di  un  intraneo  ad  un  gruppo
criminale organizzato ex art. 416-bis  codice  penale  che,  in  tale
contesto, ha commesso  delitti  omicidiari  volti  a  consentirne  la
sopravvivenza ed agevolarne gli scopi illeciti. 
    Si tratta, dunque, di un soggetto per il quale e' particolarmente
rilevante l'eventuale collaborazione con la  giustizia  che,  secondo
regole di esperienza trasfuse in una  costante  giurisprudenza  della
S.C. e della stessa Corte costituzionale, costituisce la  piu'  forte
prova della rescissione del vincolo associativo e  dunque  del  venir
meno della pericolosita' sociale dell'interessato. 
    Tuttavia, anche nel caso dell'odierno  reclamante,  anche  dunque
nel  caso  dell'associato  ex  art.  416-bis  codice  penale,   nella
peculiare fase dell'esecuzione penale, la preclusione  assoluta  alla
concessione di' un beneficio penitenziario in assenza di una condotta
collaborativa,  sembra  stridere  con   i   principi   costituzionali
deducibili dagli articoli 3 e 27 Cost., poiche' impedisce,  per  come
gia' detto, il  vaglio  di  altri  elementi  che  nel  caso  concreto
potrebbero  condurre   ugualmente   ad   un   giudizio   di   cessata
pericolosita' sociale e di meritevolezza dell'invocato beneficio, non
consentendo   un   giudizio    individualizzato    e    costantemente
attualizzato, l'unico in grado di sceverare  percorsi  intramurari  e
profili  personologici  concretamente   differenti,   rispettando   i
fondamentali principi di umanizzazione e funzione  rieducativa  delle
pene. 
    Come rilevato dalla Cassazione nell'ordinanza 18  febbraio  2019,
n.  9126,  di  rimessione  di   altra   questione   di   legittimita'
costituzionale, questa volta connessa all'art. 47-ter,  comma  1-bis,
ord. penit., precluso a  tutti  i  condannati  per  delitti  di'  cui
all'art. 4-bis, per i reati compresi nel comma 1 di tale articolo  il
legislatore, con la preclusione assoluta sin qui scrutinata,  produce
l'effetto  di  una  «mera  esasperazione  della  innegabile  sfiducia
ordinamentale verso il buon esito di percorsi rieducativi estranei al
sistema  carcerario»  e,  se  non  puo'  dubitarsi  che  i   percorsi
trattamentali  intramurari  debbano  certamente  essere  maggiormente
approfonditi per essere efficaci a fronte di condannati  per  delitti
tanto gravi (obbiettivo che il legislatore gia' persegue  richiedendo
ai  condannati  per  delitti  di  cui  all'art.  4-bis  ord.  penit.,
l'esecuzione di una  piu'  lunga  parte  di  pena  prima  di  potervi
accedere: ad. es. per quanto concerne i permessi premio almeno  dieci
anni nel caso dell'ergastolo, o quindici, ove sia stata applicata  la
recidiva reiterata), impedire una valutazione individualizzata appare
compromettere, per come gia' ripetuto, la finalita' rieducativa della
pena, cui indefettibilmente ogni esecuzione penale deve  tendere.  Il
Tribunale di sorveglianza non ignora che la Corte costituzionale, pur
rispetto a profili di  illegittimita'  diversi,  in  larga  parte,  e
soprattutto con riferimento a benefici penitenziari diversi, sia gia'
stata chiamata a pronunciarsi nella  materia  che  ci  occupa,  senza
giungere sino ad una declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale
della norma, pur circoscrivendone ad esempio i  confini  rispetto  ai
percorsi trattamentali gia' intrapresi proficuamente prima della  sua
introduzione (cfr. sentenze  Corte  costituzionale  n.  504/1995,  n.
445/1997, n. 137/1999).  Tuttavia,  confrontandosi  con  le  pronunce
emesse gia' all'indomani dell'introduzione dell'assoluta  ostativita'
di cui all'art. 4-bis, comma 1, ord. penit., emerge la consapevolezza
che l'opzione utilizzata dal legislatore, «espressione di una  scelta
di politica criminale», «abbia comportato una rilevante  compressione
della finalita'  rieducativa  della  pena»,  con  una  tendenza  alla
configurazione di «tipi d'autore per  i  quali  la  rieducazione  non
sarebbe possibile o potrebbe non essere  perseguita»  (cfr.  sentenza
Corte  costituzionale  n.  306/1993).  Una  opzione   particolarmente
critica quando venga meno qualsiasi utilita' pure  della  liberazione
anticipata, per come  detto  assolutamente  irrilevante  nell'ipotesi
dell'ergastolo c.d. «ostativo». 
    Da allora,  pero',  la  Corte  costituzionale  ha  continuato  ad
adoperarsi nel disvelamento del «volto costituzionale della pena»  ed
in particolare, circa la finalita'  rieducativa  della  pena,  si  e'
passati da una lettura che la collocava tra le altre, di  prevenzione
generale e difesa sociale, senza che potesse «stabilirsi a priori una
gerarchia statica ed assoluta che valga una volta  per  tutte  ed  in
ogni condizione» (cfr. sentenze Corte costituzionale n. 282/1989 e n.
306/1993), sino alla considerazione che la particolare  gravita'  del
reato commesso, ovvero l'esigenza di lanciare un robusto  segnale  di
deterrenza  nei  confronti  della  generalita'  dei  consociati   non
possano, nella fase di esecuzione  della  pena,  «operare  in  chiave
diatonica  rispetto  all'imperativo  costituzionale  della   funzione
rieducativa della pena  medesima,  da  intendersi  come  fondamentale
orientamento di  essa  all'obiettivo  ultimo  del  reinserimento  del
condannato nella societa' (sentenza n. 450 del 1998), e da declinarsi
nella fase esecutiva come necessita' di costante  valorizzazione,  da
parte del legislatore prima e del giudice poi, dei progressi compiuti
dal singolo condannato durante l'intero  arco  dell'espiazione  della
pena.» (cfr.  sentenza  Corte  costituzionale  n.  149/2018).  Sembra
percio' particolarmente necessario tornare a  compulsare  il  Giudice
delle leggi sul punto. 
    Occorre ancora richiamare  l'insegnamento  della  sentenza  Corte
costituzionale  n.  149/2018,  per  il  quale:  «una  volta  che   il
condannato  all'ergastolo  abbia  raggiunto,  nell'espiazione   della
propria  pena,   soglie   temporali   ragionevolmente   fissate   dal
legislatore,  e  abbia  dato  prova  di  positiva  partecipazione  al
percorso rieducativo, eventuali preclusioni all'accesso  ai  benefici
penitenziari possono dunque  legittimarsi  sul  piano  costituzionale
soltanto laddove presuppongano pur sempre valutazioni individuali, da
parte  dei   competenti   organi   giurisdizionali,   relative   alla
sussistenza di ragioni ostative di  ordine  specialpreventivo  -  sub
specie  di  perdurante  pericolosita'  sociale  del   condannato   -;
valutazioni,  queste  ultime,  che  non  potrebbero  del  resto   non
riverberarsi  negativamente  sulla  stessa  analisi  del  cammino  di
risocializzazione compiuto dal condannato stesso, e  che  per  questo
motivo  possono  ritenersi  coerenti  con  il  principio  della   non
sacrificabilita'  della  funzione  rieducativa  sull'altare  di  ogni
altra, pur legittima, funzione della pena (sentenze n. 78  del  2007,
n. 257 del 2006, n. 68 del 1995, n. 306 del 1993 e n. 313 del  1990).
Incompatibili con  il  vigente  assetto  costituzionale  sono  invece
previsioni, come quella in questa sede censurata, che  precludano  in
modo assoluto, per un  arco  temporale  assai  esteso,  l'accesso  ai
benefici penitenziari a particolari categorie di condannati - i quali
pure  abbiano  partecipato  in  modo  significativo  al  percorso  di
rieducazione, e rispetto  ai  quali  non  sussistano  gli  indici  di
perdurante pericolosita' sociale individuati dallo stesso legislatore
nell'art. 4-bis ord. penit. - in ragione soltanto  della  particolare
gravita' del reato commesso,  ovvero  dell'esigenza  di  lanciare  un
robusto segnale di deterrenza nei  confronti  della  generalita'  dei
consociati.». 
    Compatibili  con  il  quadro  costituzionale  sin  qui   riferito
sembrano dunque valutazioni soltanto individualizzate  che  accolgano
l'elemento  della  collaborazione  con  la  giustizia  quale  segnale
eminente della rescissione del  vincolo  con  il  contesto  criminale
organizzato di appartenenza, ma non esclusivo,  con  l'obbiettivo  di
garantire alla magistratura di sorveglianza lo spazio per  un  vaglio
approfondito  e  globale  del  percorso   rieducativo   eventualmente
condotto dall'istante. Questo approccio  appare  l'unico  compatibile
con la considerazione che «la personalita' del condannato  non  resta
segnata in maniera  irrimediabile  dal  reato  commesso  in  passato,
foss'anche il piu'  orribile;  ma  continua  ad  essere  aperta  alla
prospettiva di un possibile cambiamento.  Prospettiva,  quest'ultima,
che chiama in causa la  responsabilita'  individuale  del  condannato
nell'intraprendere  un  cammino  di  revisione  critica  del  proprio
passato e di ricostruzione della propria personalita', in  linea  con
le esigenze minime di rispetto dei  valori  fondamentali  su  cui  si
fonda la convivenza civile; ma che non puo'  non  chiamare  in  causa
-assieme  -  la  correlativa  responsabilita'  della  societa'  nello
stimolare  il  condannato  ad  intraprendere  tale   cammino,   anche
attraverso la previsione da parte del legislatore  -  e  la  concreta
concessione da parte del giudice - di  benefici  che  gradualmente  e
prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento  gia'
avviato, il giusto  rigore  della  sanzione  inflitta  per  il  reato
commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella
societa'.» (cfr., ancora una volta, sentenza Corte costituzionale  n.
149/2018). 
    In definitiva la peculiarita' della fase dell'esecuzione  penale,
rispetto  a  quella  cautelare,  pur  quest'ultima  presidiata  dalle
naturali garanzie connesse alla presunzione di cui all'art. 27, comma
2 Cost., e' che si sviluppa  in  un  tempo  che  progressivamente  si
allontana  dal  reato  e,  mediante  gli  effetti   del   trattamento
penitenziario (di cui la fase cautelare  non  dispone),  consente  di
verificare l'evoluzione personologica del condannato  a  partire  dai
pur gravissimi fatti commessi. Tale fase appare  per  questo  profilo
radicalmente incompatibile con una preclusione come quella che qui ci
occupa e che si limita a fotografare il legame dell'autore del  reato
con quanto commesso impedendo un vaglio concreto del suo percorso, in
cui la collaborazione con la  giustizia  sia  valutata  unitamente  a
tutti gli  elementi  raccolti  nel  suo  quotidiano  penitenziario  e
nell'evoluzione della sua realta'  socio-familiare,  inevitabilmente,
per altro, tenuto conto dei lunghi tempi previsti dal legislatore per
un simile riesame, a notevole distanza temporale dai reati commessi. 
    Anche dalle fonti  sovranazionali,  d'altra  parte,  si  traggono
elementi univoci nel senso che l'esecuzione della pena dell'ergastolo
debba essere illuminata dalla funzione rieducativa e  dunque  da  una
prospettiva  di  possibile,  concreta,  risocializzazione.  La  Corte
europea dei diritti dell'uomo, a far data dalla nota sentenza  Grande
Chambre Vinter e altri c. Regno Unito 9 luglio 2013, poi ribadita con
giurisprudenza costante sul punto sino ai piu'  recenti  arresti,  ha
stagliato l'obbligo, a carico degli Stati contraenti,  di  consentire
sempre che il condannato alla pena dell'ergastolo possa contare su un
riesame  certo  della  perpetuita'  della  sua   pena,   conoscendone
dall'inizio dell'espiazione tempi e presupposti, e che  sia  prevista
dunque una periodica verifica dei progressi compiuti  dal  condannato
nel corso del trattamento, al fine  di  valutare  la  permanenza  dei
motivi che ne giustifichino il mantenimento in detenzione. 
    Le  Regole  penitenziarie  europee  (Raccomandazione  2006/2  del
Comitato dei Ministri agli  Stati  membri),  poi,  nella  regola  103
«Implementazione del regime per i detenuti  condannati»,  prescrivono
che nei confronti di tutti i condannati, compresi dunque i sottoposti
alla pena perpetua, debbano essere redatti programmi  di  trattamento
individualizzati, contenenti anche una strategia per la  preparazione
alla loro liberazione. Del trattamento loro riservato deve far  parte
integrante un sistema di permessi mentre, secondo il  punto  8  della
regola  103,  «un'attenzione  particolare  deve  essere  prestata  al
programma di trattamento e al regime dei condannati a vita o  a  pene
lunghe». Tutti gli elementi citati, infatti,  sembrano  in  grado  di
riempire di contenuti  orientati  all'obbiettivo  risocializzante  il
tempo della pena, consentendo che lo stesso sia pieno e in grado, con
stimoli progressivi, di  orientare  opportunamente  la  quotidianita'
penitenziaria. 
    Anche attraverso la chiave di lettura offerta  da  questi  ultimi
spunti, appare evidente che  l'esame  individualizzato  del  percorso
rieducativo del condannato ben puo' condurre ad inibire, anche a  chi
debba espiare la pena perpetua,  per  un  certo  tempo,  anche  molto
lungo, e comunque sinche' perdura una incapacita' di capitalizzare le
offerte trattamentali che l'istituzione ha  l'obbligo  di  fornirgli,
l'accesso a benefici extramurari come i permessi premio. Al contrario
un automatismo preclusivo, come quello  di  cui  sin  qui  ci  si  e'
occupati, finisce per travolgere la  possibilita'  di  verificare  in
concreto l'evoluzione  personale  del  condannato  verso  modelli  di
comportamento socialmente condivisi che anche  l'autore  dei  delitti
piu' efferati deve considerarsi in grado di compiere e  con  cio'  si
corre il rischio di vanificare  l'invece  indefettibile  tensione  di
tutta l'esecuzione penale verso la risocializzazione del reo. 
    Alla luce degli elementi sin qui succinti, ritiene il collegio di
sollevare  la  questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.
4-bis, comma 1, legge 26 luglio 1975,  considerandola  rilevante  nel
presente procedimento e non manifestamente infondata, con riferimento
agli articoli 3 e 27 della Costituzione, nella parte in  cui  esclude
che il condannato all'ergastolo  per  delitti  commessi  al  fine  di
agevolare l'attivita' dell'associazione a delinquere ex art.  416-bis
codice penale della quale sia stato partecipe, possa  essere  ammesso
alla fruizione di un permesso premio. 
    Deve quindi sospendersi il procedimento  ex  art.  23,  legge  n.
87/1953, con trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.